NAPOLI: Capitale dell’Italia del Sud
“Napule è mille culure, Napule è mille paure, Napule è a voce de’ criature che saglie chianu chianu e tu sai ca nun si sulo.
Napule è nu sole amaro, Napule è addore ‘e mare, Napule è ‘na carta sporca e nisciuno se ne importa e ognuno aspetta a’ ciorta.
Napule è ‘na cammenata inte viche miezo all’ato, Napule è tutto ‘nu suonno e ‘a sape tutti o’ munno ma nun sanno a verità”
(Pino Daniele – “Napule è” – Album “Terra mia” del 1977)
“Napule è ‘nu paese curioso: è ‘nu teatro antico, sempre apierto. Ce nasce gente ca’ senza cuncierto scenne p’ ‘e strate e sape recità”
(Eduardo De Filippo)
LA LEGENDA E LA STORIA
Oltre ai suoi splendidi paesaggi, la città deve la sua meritata fama anche al fascino di un centro storico che racconta 2500 anni di storia ed è stato inserito nel 1995 nel World Heritage List dell’UNESCO.
Nel IX sec a.C. dall’isola di Rodi i Greci approdarono dove, secondo la legenda, giaceva il corpo della “Sirena Parthenope”, narrata da Omero nel XII canto dell’Odissea.
Attratti dal clima salubre e dalla bellezza del luogo, i Greci decisero di stabilirsi in questo territorio e di consolidare il loro insediamento tra le numerose grotte di tufo presenti nella zona fondando una nuova città (la zona attuale di Castel dell’Ovo tra via Chiatamone e via Morelli).
Data l’ottima posizione difensiva, circondata su tre lati dal mare, eventuali nemici non avrebbero potuto insidiare la nuova città né da terra né da mare e quindi, in questo clima di serenità, la città crebbe per qualche secolo.
Intorno al 530 a.C., iniziò però una fase di declino di Parthenope, dovuta al sopravvenuto predominio commerciale e militare degli Etruschi nell’area.
La rinascita della città giunse dopo il 474 a.C. quando le colonie della Magna Grecia, sconfitti gli Etruschi in mare, riaffermarono la loro egemonia sull’Italia meridionale. A questo punto, i greci della città di Cuma (la colonia più antica e la più lontana dalla madrepatria fondata dai Greci nel 750 a.C., nell’area vulcanica dei Campi Flegrei, di fronte all’Isola di Ischia, nel territorio dei comuni di Bacoli e di Pozzuoli) poterono ripopolare il vecchio borgo che assunse il nome di Palepolis (città vecchia), mentre a pochi chilometri di distanza, verso Est, veniva fondata Neapolis (città nuova), un nuovo e più grande centro, fortificato e dotato di un ampio porto.
Gli storici sono tutti concordi nel far risalire la fondazione di Neapolis il 21 dicembre 475 a.C., giorno del solstizio d’inverno (Gli antichi, come segno di buon auspicio, avevano infatti l’usanza di porre la prima pietra di una nuova città sempre in concomitanza dei fenomeni astrali).
Fin dalla sua fondazione, la città di Napoli è stata punto di incontro di popoli e culture diverse.
Viene conquistata e abitata da Greci, Sanniti, Romani, Bizantini. Nel Medioevo si avvicendarono al potere i Normanni gli Svevi e gli Angioini. Nel Rinascimento, gli Aragonesi, gli Spagnoli e gli Austriaci. Durante il XVIII sec. i Borbone promuovono la rinascita del Regno di Napoli che diventa indipendente nel 1734 con re Carlo. Sotto la dinastia dei Borbone, Napoli sancì definitivamente il suo ruolo di grande capitale europea, soprattutto con la costruzione di imponenti impianti architettonici: la Reggia di Capodimonte, il Teatro San Carlo, l’Albergo dei Poveri, la Reggia di Caserta, la fabbrica di porcellane di Capodimonte. Nel 1806 fu conquistata dai francesi per mano di Napoleone Bonaparte che affidò il regno a suo fratello Giuseppe e in seguito a Gioacchino Murat. Nel 1815 con la definitiva sconfitta di Napoleone e il Congresso di Vienna Napoli ritornò nuovamente ai Borbone.
Nel 1860 a seguito della sconfitta delle truppe borboniche da parte dei Mille di Giuseppe Garibaldi, per “garantire la città dalle rovine della guerra, placare i disordini interni e impedire una guerra civile” (cominciarono, infatti, a formarsi all’interno della città dei gruppi armati a favore dell’avanzata di Garibaldi e altri, capeggiati da ex militari dell’esercito borbonico, nei cui ranghi erano accorsi numerosi contadini poveri, a favore dei Borbone), Francesco II di Borbone abbandona Napoli. Con i plebisciti del 21 ottobre 1860 il “Regno delle due Sicilie” fu annesso al “Regno di Sardegna”. Da quel momento in poi la storia di Napoli si fonde con quella dell’Italia.
I COLORI DELLA CITTÀ DI NAPOLI
I colori della città di Napoli sono il giallo (il colore dell’oro, come simbolo del sole, di forza e ricchezza), e il rosso (il colore del fuoco, simbolo di giustizia e nobiltà). L’Azzurro, invece, è il colore della SCC Napoli (Società Sportiva Calcio Napoli), reminiscenza dei colori angioini e borbonici.
Lo stemma della città di Napoli è costituito da uno scudo sannitico dalla forma rettangolare sormontato da una corona turrita espressione di libertà e di indipendenza municipale.
I SIMBOLI DELLA NAPOLETANITÀ
San Gennaro. Patrono di Napoli e simbolo della devozione e religiosità napoletana.
Pulcinella. La maschera napoletana della tradizione partenopea che rappresenta lo spirito furbo, spontaneo e generoso dei napoletani. Proprio da questa figura nasce la famosa espressione “il segreto di Pulcinella” che indica un segreto che non è più tale, dal momento in cui Pulcinella non riesce mai a tacere e tenere nascosto un segreto.
Masaniello. Il “Che Guevara” napoletano a capo della rivoluzione napoletana. Rappresenta il lato forte e combattivo della napoletanità. Da Tommaso Aniello D’Amalfi (Masaniello) c’è molto ancora da imparare ancora oggi quando si tratta di difendere ideali e giustizia.
Scugnizzo. Ancora oggi rappresenta il ragazzo figlio di nessuno, astuto e intelligente, vivace, che vive per strada, disposto ad “arrangiarsi” con espedienti anche se, in alcuni casi, scarsamente onesti. Rappresenta il modo di reagire e di “arrangiarsi” del carattere dei napoletani. Associato spesso alla sfera sociale negativa della città, ne esistono esempi che fanno dello scugnizzo esempio di “forza” dell’essere napoletani. Gli “scugnizzi” scrissero una bella pagina di storia della loro città durante le famose “Quattro giornate di Napoli”, dal 26 al 30 settembre 1943, quando la popolazione, costituita anche da giovanissimi ragazzi, costrinse i tedeschi ad uscire dalla città contro la volontà di Hitler di ridurla in cenere. La resistenza iniziò quando un ragazzo sconosciuto, di tredici anni, visto un carro armato in Piazza Carità gli si scagliò contro con una asta in ferro e la lanciò piantandola tra i cingoli del carro armato bloccandolo. Fuggì poi con tanta velocità che le mitragliatrici non lo colpirono. Le medaglie d’oro concesse a Giacomo Lettieri (sedici anni), a Filippo Illuminato (tredici anni), a Gennaro Capuozzo (dodici anni) e la medaglia d’argento a Pasquale Formisano (diciassette anni), sono riconoscimenti che meritano ammirazione da parte di tutti, non solo dei Napoletani
Il caffè a Napoli è una cosa seria. Rappresenta ”l’Oro nero di Napoli” e per i napoletani è un vero e proprio rito a conferma di una vera espressione di napoletanità. La “tazzulella ‘e cafè” fa parte delle irrinunciabili abitudini del napoletano e su questo rito sono tante le curiosità.
La pizza a Napoli è un’istituzione, prima tra i simboli della napoletanità nel mondo. Che si mangi per strada, in casa o nella miglior pizzeria di Napoli, la pizza a Napoli non ha eguali c’è poco da discutere.
Il Vesuvio è parte integrante del panorama paesaggistico della città. Il Vesuvio veglia imponente su Napoli e sul suo magnifico golfo ed è visto come il “gigante buono” dai napoletani con la speranza che resti in eterno simbolo innocuo di bellezza ed imponenza.
Diego Armando Maradona, idolo dei napoletani legato al tempio del calcio che lo ha visto vincere con il Napoli contro TUTTI. Dopo la sua morte, 25 novembre 2020, il Comune ha dedicato a lui lo Stadio San Paolo: “Stadio Diego Armando Maradona”. Uno dei due grandi murale a lui dedicati, diventato oggi luogo di raccolta e manifestazioni d’affetto per il calciatore, si trova nei Quartieri Spagnoli, in via Via Emanuele de Deo al n. 60. Dipinto su un palazzo di 6 piani nel 1990, quando il Napoli vinse il secondo scudetto, da Mario Filardi, un giovane artista che allora abitava in zona ed aveva 23 anni, è stato realizzato grazie a una colletta organizzata dai tifosi del quartiere.
Il corno (‘o curniciell) simbolo della superstizione napoletana, oggetto utile a combattere la sfiga, i malocchi e le “jatture”.
Personaggi famosi simboli della napoletanità, per citarne solo alcuni, sono: Eduardo De Filippo, Totò, Bud Spencer, Sophia Loren, Pino Daniele, Massimo Troisi, Luciano De Crescenzo.
DA NON PEDERE
Basilica di Santa Chiara e gli adiacenti chiostri con magnifici affreschi e maioliche policrome.
Cappella Sansevero che custodisce la meravigliosa scultura del “Cristo Velato”, scolpita nel 1753 da Giuseppe Sanmartino e considerata una delle sculture più straordinarie del patrimonio artistico italiano.
Via San Gregorio Armeno, famosa per le botteghe che realizzano le celebri statuine del presepio.
Via dei Tribunali con gente che canta o discute ad alta voce sotto un cielo tappezzato di panni stesi da una casa all’altra.
Duomo di Napoli al cui interno è conservato il Sangue di San Gennaro e il suo Tesoro.
Belvedere San Martino per una meravigliosa vista sulla città e sul Vesuvio.
Le stazioni della metropolitana. Per la loro bellezza, le stazioni da non perdere sono: Toledo, Dante, Museo, Materdei, Salvador Rosa, Quattro Giornate, Vanvitelli, Università e Municipio. La Fermata Toledo, da rimanere a bocca aperta, è considerata la stazione più bella d’Europa.
Via Toledo, la via dello shopping di Napoli.
I Quartieri Spagnoli, un pittoresco intreccio di stretti vicoli dove, tra panni stesi e ragazzini che danno calci a un pallone e autentiche trattorie, si entra nella Napoli più vera.
Il mercato della Pignasecca, il più antico di Napoli.
La Galleria Umberto I, molto simile alla Galleria Vittorio Emanuele II di Milano.
Il teatro San Carlo, fondato nel 1737, è il più antico teatro d’opera d’Europa e del mondo ad essere tuttora attivo, primo teatro italiano ad istituire una scuola per la danza;
Il Maschio Angioino, detto anche Castel Nuovo, affacciato sul mare.
Piazza del Plebiscito dominata dalla copia neoclassica del Pantheon di Roma e il Palazzo Reale
Castel dell’Ovo e il lungomare, una camminata vista mare e come sfondo l’imponenza del Vesuvio
I PUNTI PANORAMICI PER AMMIRARE LA CITTÀ DALL’ALTO
San Martino e Castel Sant’Elmo. Uno dei panorami più suggestivi di Napoli, che abbraccia l’intera città sulla collina del Vomero.
Eremo dei Camaldoli. A 485 metri sul livello del mare, senza dubbio il luogo più alto di Napoli. Il “Belvedere” situato all’esterno della splendida chiesa cinquecentesca, offre una vista spettacolare dell’intera città.
Posillipo – la Terrazza di Sant’Antonio. La “Napoli da cartolina” sulla terrazza antistante la Chiesa di Sant’Antonio, su una delle cosiddette “tredici scese”.
Parco Virgiliano. Conosciuto dai napoletani come “Il parco della Rimembranza”, si possono ammirare altre bellezze della città
Via Aniello Falcone. Su una strada tortuosa sospesa tra la collina del Vomero e la Riviera di Chiaia, è possibile ammirare un panorama strepitoso che abbraccia il golfo della città con il suo caratteristico “arco”.
NAPOLI E IL CULTO DEI MORTI
“Ogn’anno, il due novembre, c’é l’usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll’adda fà chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.”
‘A livella (Antonio de Curtis – Totò)
“Come spiegare a volte che cos’è la morte. Si ha paura di dimenticare i nostri cari e quindi di farli morire anche dentro di noi. I morti continuano a vivere finché non smettiamo di ricordarli o finché non ci sarà sempre qualcuno che li ricorderà dopo di noi”.
A Napoli esiste un mondo segreto e straordinario, popolato da spiriti e fantasmi, spesso ignorati e sconosciuti, ma che sussurrano pensieri sereni e accoglienti a chi è disposto ad ascoltarli.
Dall’insuperabile magia del Cimitero delle Fontanelle, allo sconosciuto Cimitero delle 366 Fosse, dai sorprendenti resti della Chiesa di Santa Luciella, dove è custodito l’unico cranio con “le orecchie”, all’insuperabile ipogeo della Chiesa del Purgatorio ad Arco, che accoglie da secoli il culto delle anime degli ultimi, le anime “pezzentelle”.
Nella chiesa di Santa Maria delle anime del Purgatorio ad Arco, detta la chiesa delle anime “pezzentelle”, o chiesa delle “Capuzzelle” che sorge a via dei Tribunali, sono custoditi moltissimi teschi risalenti al XVII secolo, e al centro del pavimento si apre una specie di tomba circondata da catene nere e illuminata dalla luce fioca di qualche lampadina.
Che cosa sono le anime “pezzentelle”.
Per pezzentella si intendeva proprio un’anima di un morto che veniva adottata da qualcuno per una sorta di “do ut des”: il vivo prega l’anima del defunto affinché questi gli allevi la sua sofferenza e al contempo l’anima del defunto accetta le preghiere del vivo per lasciare il Purgatorio e giungere finalmente in Paradiso. L’antico culto è vissuto ancora oggi con intensità.
PERCHE SI DICE ” ‘O SCHIATTAMUORTO”
Nella cultura popolare partenopea, la figura del becchino è spesso indicata col termine “schiattamuorto”. Si ritiene che appellativo derivi da un tipo di sepoltura molto particolare, in voga tra i nobili del Seicento. I teschi dei defunti venivano infatti apposti sulle pareti del luogo di sepoltura e il resto del corpo era affrescato con gli abiti, simboli, stemmi e attrezzi del mestiere: tutto ciò che facesse rimarcare il grado e la posizione sociale che il defunto aveva rivestito in vita.
“A morte ‘o ssaje ched”è? … è una livella.
‘Nu rre,’nu maggistrato, ’nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’o punto
c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme:
tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?
Perciò, stamme a ssenti… nun fa” o restivo,
suppuorteme vicino – che te ‘mporta?
Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:
nuje simmo serie…appartenimmo à morte!”
‘A livella (Antonio de Curtis – Totò)
La sepoltura era preceduta dalla cosiddetta fase di scolatura: i cadaveri venivano posizionati all’interno di apposite nicchie, dette scolatoi, e “bucherellati” in modo che perdessero tutti i loro fluidi corporei, così che le loro ossa fossero pronte a essere deposte nel luogo di sepoltura definitiva. Gli addetti a questa macabra operazione, spesso ex galeotti, erano per l’appunto chiamati “schiattamuorti”. Un luogo simbolo di questo tipo di sepoltura a Napoli è il complesso di San Gaudioso e le sue catacombe. Da qui la più tremenda maledizione napoletana è sicuramente: “puozze sculà“
LA DEVOZIONE INCONDIZIONATA PER SAN GENNARO
San Gennaro o “faccia gialla”, altro appellativo dato al Santo, non si tocca. Al Napoletano puoi toccare tutto ma non San Gennaro.
Gennaro (Benevento o Napoli, 21/04/272 – Pozzuoli 19/09/305) vescovo di Benevento, sotto Diocleziano, cercò di liberare il suo amico e collega Sossio. Fu arrestato e condannato a morte ed entrambi furono decapitati nella solfatara di Pozzuoli.
Il suo sangue, raccolto dalla pia Eusebia (cosa comune per commemorare i Cristiani martirizzati), conservato in due ampolle nella cappella nel Duomo di Napoli insieme ad alcune ossa del suo scheletro, è venerato come santa reliquia.
La prima testimonianza sulla liquefazione del sangue risale al 1389, da allora il miracolo si ripete, abbastanza regolare, ogni anno nel sabato precedente la prima domenica di maggio, il 19 settembre e il 16 dicembre
IL CONTRATTO CON SAN GENNARO
Nel 1527 oltre la guerra franco-spagnola, l’alternarsi delle varie dominazioni e rivolte, la città doveva affrontare il problema della carestia, dell’epidemia di colera e, per finire, dell’eruzioni del Vesuvio.
Sfinito da tutte queste calamità, tutto il popolo senza distinzione economica, decise di fare un voto a San Gennaro: costruirgli una nuova cappella nel Duomo, di omaggiarlo periodicamente con delle donazioni e di amarlo e rispettarlo per sempre se in cambio avesse protetto la città dal fiume di lava. San Gennaro fu portato in processione per ben tre giorni, sempre sul baldacchino e sempre seguito da una lunga processione composta dai prelati, nobili, Corte e popolo, mentre il Vesuvio continuava a distruggere tutto quello che incontrava. Il terzo giorno il sangue nelle ampolle si sciolse, il cardinale di allora, Buoncompagno, lo girò verso il Vesuvio e il vulcano si placò. Napoli era salva. Con un vero contratto notarile stipulato con il Santo, rappresentato da 5 notai napoletani essendo egli morto da tempo, e il Popolo napoletano, rappresentato dagli Eletti dei Sedili della città, fu costruita la nuova cappella che venne inaugurata nel 1646 dove ancora oggi sono custodite le reliquie e il frutto delle donazioni: Il Tesoro di San Gennaro.
CURIOSITA
SAN GENNARO È PIÙ RICCO DI ELISABETTA II
ll Tesoro di San Gennaro, da ammirare a pochi passi dal Duomo, è frutto di donazioni del popolo a seguito del voto del 1527. È un capolavoro di arte orafa dal primo all’ultimo pezzo e può veramente lasciare a bocca aperta.
Una stima precisa circa il valore del Tesoro di San Gennaro non esiste. Nel 2010 un pool di gemmologi ha stimato il valore della sola “Mitra” in 7 milioni di euro. La “Croce di smeraldi”, donata da Napoleone, da sola varrebbe più di 20 milioni di euro (contiene smeraldi per 26 carati).
Gli esperti lo giudicano di valore di gran lunga superiore a quello della Regina d’Inghilterra.
Il Tesoro non si è mai ridotto, anzi è sempre cresciuto nel tempo. La grande differenza? Non è di proprietà un nobile, di un sovrano o di un privato ma appartiene solo al Popolo napoletano e questo, insieme alla profonda devozione per il Santo, è uno dei motivi per cui i pezzi non sono mai stati ceduti.
LA DOLCEZZA DI NAPOLI
Napoli è di sicuro la regina della pizza e del cibo di strada (chiamiamolo pure street food). Ma come simboli della gastronomia tipica partenopea ci sono i dolci che gli stranieri non possono copiare (se no molto malamente) o infilare in un cliché, ma solo assaggiare per rimanere “abboccaperta”. Sfogliatelle, babà, pastiere e la sublime “ministeriale”, il medaglione di cioccolato che delizia generazioni di napoletani fin dall’800, affollano infatti le vetrine delle pasticcerie “Poppella” nel rione Sanità o “Scaturchio” ai Tribunali, dove la parola sfogliatella fa rima con poesia. È difficile resistere all’aroma del caffè e alla fragranza dei cornetti per gustare una colazione seduti nello splendido scenario della piazza San Domenico Maggiore.
LA CREATIVITÀ DI NAPOLI
Il luogo che più di ogni altro concentra la passione per la tradizione e la qualità dell’artigianato artistico è via San Gregorio Armeno. È tra le più famose del centro storico di Napoli, su cui si aprono le botteghe e si susseguono i banchetti degli artigiani che perpetuano la tradizione del presepe napoletano e dei fiori di carta e di seta. Durante le settimane dell’Avvento la via diventa un bagno di folla densissimo, in cui cercare come rabdomanti pezzi unici per l’allestimento del presepe. Si passa dalle statuette di personaggi della tradizione cristiana a raffigurazioni satiriche di personaggi dell’attualità; dai giochi d’acqua a grotte di ogni forma, dalle miniature a etti di muschio e sughero. Una città nella città.
ATTRAVERSARE BENDATI PIAZZA DEL PLEBISCITO
Piazza del Plebiscito, è certamente la più caratteristica delle piazze di Napoli.
Conosciuta come largo di Palazzo, fu realizzata nel 1860, quando un plebiscito, appunto, decreta l’annessione dell’allora “Regno delle Due Sicilie” al “Regno di Sardegna”.
Nella piazza sia oggi che in passato si svolgono, feste popolari, le principali manifestazioni, i concerti ed è il luogo di ritrovo per i festeggiamenti dei successi sportivi della Società Sportiva Calcio Napoli. Tra le più famose feste popolari del passato vi era quella della “Cuccagna”. Durante la festa veniva posto al centro della piazza un albero di nave a cui erano attaccati premi per coloro che riuscivano a salirvi.
Nella piazza, come vuole la tradizione, bisogna cimentarsi in un particolare gioco.
Partendo dalla porta di Palazzo Reale bisogna attraversare, bendati, lo spazio tra la statua equestre di Carlo III di Borbone e quella di Ferdinando I. L’impresa, apparentemente facile, si rivela invece molto ostica per una “maledizione”. La leggenda vuole che la regina Margherita concedesse, una volta al mese, a uno dei suoi prigionieri, di avere salva la vita a patto di superare proprio questa prova. Non ci riuscì mai nessun prigioniero, complice la pendenza del pavimento.
LE STATUE DEI RE DI NAPOLI A PIAZZA PLEBISCITO
In piazza del Plebiscito c’è anche una lunga discussione tra le statue che ornano la facciata di Palazzo Reale. Ognuna di esse rappresenta, attraverso il suo capostipite, una dinastia a cui è stata sottoposta la città di Napoli. Partendo da sinistra: Ruggero il Normanno, Federico II di Svevia, Carlo I d’Angiò, Alfonso V d’Aragona, Carlo V d’Asburgo, Carlo III di Spagna, Gioacchino Murat ed infine Vittorio Emanuele II. Mancano del tutto i Re della famiglia dei Borbone.
La voce del popolo narra che Carlo V d’Asburgo, che ha un dito rivolto verso terra, esclamo “Chi ha pisciato ca’ n’terra?” – Carlo III, di seguito rispose “Nun saccio’ nient’” – Murat, pieno di sé, disse “So’ stat’io e mo’ ch’fai?” – Vittorio Emanuele, che ha la spada sguainata esclamò “Mo to tagl’ accussì t’ liev’ o vizio”
LEGGENDA DELLA SIRENA PARTHENOPE E LE ORIGINI DI NAPOLI
La fondazione della città di Napoli, avvenuta per mano dei Greci nel VIII secolo a.C., è legata alla leggenda della sirena “Parthenope”.
La leggenda più diffusa e conosciuta racconta la storia di “Partenope”, la vergine,”Leucosia”, la bianca, e ”Ligea” dal suono penetrante. Tre bellissime sirene, sulle quali pendeva una terribile maledizione: il rifiuto di un uomo le avrebbe condannate a morte.
Le tre sirene, bellissime e dal fascino senza limiti, abitavano gli scogli a largo della penisola sorrentina, un arcipelago un tempo conosciuto come “Sirenussai” e oggi chiamato “Li Galli”.
Nessuno poteva resistere al canto ammaliatore di queste bellissime divinità, metà donna e metà uccello. Ma l’astuto Ulisse escogitò un piano per sottrarsi alla morte e lasciarsi travolgere dall’irresistibile canto delle sirene. L’eroe di Itaca tappò le orecchie dei compagni con del cerume e si lasciò legare all’albero della nave ordinando che se mai avesse preteso di essere liberato, essi avrebbero dovuto stringerlo con nodi più stretti.
Uno smacco che tormentò la sirena “Parthenope” e le sue compagne al punto da costringerle al suicidio. “Parthenope” si lasciò morire lanciandosi da un dirupo e il suo corpo fu trascinato dalle onde su una propaggine che si allungava nel mare del golfo e che gli antichi greci chiamavano “Megaride”. Proprio su questa roccia, dove più tardi nascerà la “Villa di Lucullo” e il “Castel dell’Ovo”, gli antichi abitanti del luogo innalzarono un magnifico sepolcro in suo onore. Una tomba che qualcuno colloca sotto la basilica di “Santa Lucia”, che un tempo sorgeva sulla riva della spiaggia, e qualche altro tra le mura dell’antica “Neapolis”.
A consolidare il mito della sirena è stata eretta, nel 1869, la “Fontana della Sirena Partenope”, in Piazza Sannazaro nella zona di Mergellina e la fontana della “Spinacorona” (detta “delle zizze”) addossata alla chiesa di Santa Caterina della Spina Corona in Via Giuseppina Guacci Nobile (vicino a Piazza Nicola Amore).
“O MUNACIELLO”
Secondo leggenda, il “munaciello” (o monaciello) rappresenta la figura del fantasma a Napoli. Il “munaciello” (piccolo monaco) è un vecchio fanciullo e chiamato così per il suo aspetto da monaco visto il saio che indossa nelle sue ipotetiche apparizioni.
Non disdegna visite ai vecchi palazzi, nelle rovine di abbazie e monasteri. Ogni quartiere di Napoli e dintorni ha i suoi luoghi di apparizione, le sue storie, le sue teorie.
Il “munaciello” si presenta con simpatia, lasciando soldi dentro giacche e cassetti oppure facendo scherzetti che poi possono essere trasformati in numeri da giocare al lotto con l’aiuto della “Smorfia” napoletana.
Secondo alcuni, “‘o munaciello”, sarebbe realmente esistito nel periodo in cui a Napoli regnavano gli Aragonesi nel 1445 circa.
Come ci racconta Matilde Serao in “Leggende napoletane” (1881), le origini del “munaciello” risalgono all’epoca in cui ci sarebbe stata una storia d’amore tra Caterina Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe, e Stefano Mariconda, un povero garzone. I due si incontravano di nascosto la notte, per non farsi scoprire dalla famiglia della ragazza. Il giovane raggiungeva la casa di Caterina percorrendo un pericoloso sentiero sui tetti di Napoli. Una notte, però, fu lanciato nel vuoto e morì. Caterinella fu rinchiusa subito in un convento, dove diede alla luce il bimbo frutto di quella relazione clandestina. Il piccolo nacque però deforme e la madre cominciò a vestirlo con un saio col cappuccio, come quello che indossano i frati domenicani. Veniva deriso per le vie del quartiere Porto e tutti cominciarono a chiamarlo “lu munaciello”.
Altra ipotesi sulle origini di “o munaciello” è quella degli antichi “pozzari”, professionisti che si occupavano della rete idrica e delle cisterne sotterranee. Esiste una Napoli sotterranea attraversata da più di un milione di metri quadrati di cunicoli scavati a più riprese durante la sua storia e utilizzati nei modi più disparati: case sotterranee delle popolazioni antiche, cave e ipogei funerari dei Greci, acquedotti dei Romani (ben 400 km), depositi di veicoli, vie di fuga, rifugi antiaerei, eccetera. I “pozzari” si aggiravano nel sottosuolo armati di lucerne a olio, mantelline da lavoro ed elmetti protettivi. Erano tozzi, piccoli, simili a dei fraticelli che, per risalire o discendere, utilizzavano delle nicchie scavate sulle pareti delle cisterne adibite proprio a questo scopo.
Dai pozzi (situati per la maggior parte nei cortili delle ville e presenti ancor oggi nelle abitazioni del centro storico.) all’interno delle case la via è breve: soprattutto se i committenti non pagavano i servizi o custodivano mogli o figliole focose. Non era raro trovarli a sgraffignare cibo oltre che valori. I “pozzari” rubavano e donavano alle loro nuove amanti, da cui la doppia indole di ladri e benefattori.
La figura di questo spirito della casa tipicamente napoletano è stato il protagonista di una serie di opere teatrali e cinematografiche. La più famosa è senza dubbio “Questi fantasmi!”, commedia di Eduardo De Filippo, in cui l’amante della moglie del protagonista è rappresentato proprio come un “munaciello”
IL CAFFÈ NAPOLETANO
La storia del caffè napoletanoè recente e la bevanda arriva in città abbastanza tardi rispetto al resto d’Europa: se i primi chicchi arrivano in Italia a partire dal 1600, il caffè a Napoli arriva solo nel 1614.
Le ipotesi sull’origine del caffè napoletano sono diverse.
Nel 1614, Pietro della Valle, in viaggio verso la Terra Santa, in una delle sue lettere, racconta di una bevanda detta “khave”. Un liquido profumato che veniva fuori da bricchi posti sul fuoco, versato in piccole scodelle di porcellana e bevuto dopo pranzo.
Alcuni sostengono che la bevanda è arrivata clandestinamente all’Università di medicina di Salerno e prima del viaggio di Pietro della Valle. Altri pensano che il caffè in Campania fosse presente già a partire dal 1450 quando regnavano gli Aragonesi.
Ma a prescindere quale sia la sua origine, questa bevanda è apprezzata a Napoli solo agli inizi dell’800 con la comparsa dei primi caffettieri ambulanti che percorrevano la città con i loro recipienti di caffè, latte, tazze e zucchero.
Da questo momento il caffè diventa un momento di aggregazione, un rito della tradizione napoletana che significa fare amicizia e regalarsi un momento di spensieratezza: “pigliammoce o’ ccaffè”.
Prima di arrivare al popolo, si diffonde nei salotti buoni grazie a Maria Carolina d’Asburgo che sposò re Ferdinando IV di Borbone nel 1768. Fu lei ad introdurre a corte l’uso del caffè, sfatando antichi tabù secondo i quali si credeva che la bevanda “portasse male” per il suo colore nero. Inoltre, il caffè era definito dalla chiesa come “la bevanda del diavolo”, per cui inizialmente non si diffuse.
Per gustare il vero caffè napoletano, oltre alla miscela giusta, sono indispensabili l’acqua di Napoli e la “Cuccumella”. Per apprezzare il suo gusto, il profumo intenso e l’aspetto cremoso, va bevuto “rigorosamente” in una tazzina di ceramica bianca riscaldata, senza presenza di umidità (cioè tracce di acqua ai bordi o all’interno), spessa e senza decori interni.
Il caffè a Napoli è un rituale, rappresenta un vero e proprio culto. Rifiutarlo, se offerto, equivale quasi a un’offesa.
Tempio del caffè napoletano è “Il Gran Caffè Gambrinus”. Uno dei più riusciti esempi in Italia di caffè letterario. La sua storia inizia nel 1860 con l’Unità di Italia, al piano terra del palazzo della Foresteria, affacciato direttamente su Piazza Plebiscito e Palazzo Reale. Il Gran Caffè Gambrinus diventa in breve tempo il salotto del bel mondo cittadino. “Attenzione però alla temperatura della tazzina”.